Sabato alle sei del mattino un forte boato ha aperto la porta del piano superiore dove dormivamo io e mio fratello Uri. "Vuoi che andiamo nel rifugio?" mi ha chiesto, “sembra che le nostre forze aeree stanno attaccando”.
Almeno era quello che pensavamo entrambi. Ho chiuso con noncuranza la porta a rete del piano di sopra con una chiusura in plastica, e sono scesa al piano di sotto con il pigiama addosso (e la mia mitica borraccia - chi sa cos’è… lo sa), per fortuna indossavo i sandali. Ho lasciato la mia borsa di sopra, con gioielli d'oro, chiavi, portafoglio, certificati, foto e oggetti personali che porto con me ovunque.
All’inizio ci sono stati alcuni boom e ci è stato chiesto di restare nel rifugio. Mia madre ha ancora avuto il tempo di bere il caffè e fumare una sigaretta. Quando la seconda sirena è suonata, il nostro cane Luna non è voluto entrare nel rifugio con noi.
Mentre eravamo ancora dentro il rifugio, abbiamo ricevuto un messaggio che dei terroristi si erano infiltrati nel nostro kibbutz. Abbiamo chiuso la porta ermeticamente con la serratura superiore, e mio fratello, il genio, l’ha bloccata con una piccola cassettiera.
Dopo non molto abbiamo sentito delle grida in arabo al piano di sopra, e dopo un po’ abbiamo sentito urlare Allahu Akbar fuori dalla finestra del rifugio. Mio fratello ha detto che avremmo dovuto spostare il pianoforte e bloccare la porta d'ingresso del rifugio.
Non mi dilungo per non entrare in un altro flashback: i terroristi hanno cercato di entrare in casa e hanno preso a calci la porta d'ingresso chiusa a chiave, e quando non ci sono riusciti, in qualche modo hanno fatto saltare in aria il muro della casa e sono entrati attraverso il bagno. (Granata? Calci? Lanciarazzi? Non ne ho idea, perché non potevo vedere nulla, ma in compenso sentivo tutto).
In quel momento ho chiesto a chi poteva di mandare aiuto, nel gruppo del kibbutz, degli amici, dei parenti. "Sono dentro casa, aiutateci, mandate aiuto." Mentre sto scrivendo questo ricordo che tremavo, non riuscivo a pensare ad altro che ad uscire da lì e farci venire a salvare.
"I terroristi hanno preso a calci la porta del bunker e visto che non facevamo rumore, hanno sparato."
I terroristi hanno preso a calci la porta del bunker e visto che non facevamo rumore, hanno sparato. Mi sono nascosta sotto il pianoforte, la mamma sotto il letto, mio fratello tra il pianoforte e il muro. Mi sono piegata in posizione fetale, ricoprendomi lentamente di urina, lacrime e sudore.
Ci uccideranno. Ci stanno sparando. Sto per morire.
Non riuscendo ad aprire la porta, hanno appiccato il fuoco all'interno della casa. Il fumo ha iniziato a entrare nel rifugio. Allora abbiamo preso delle garze, le abbiamo imbevute d’acqua e ce le siamo messe sul viso. Più tardi abbiamo utilizzato delle magliette bagnate e mio fratello ne ha messa una sul condotto dell’aria.
La stanza ha iniziato a riempirsi di fumo e io ho avuto un attacco d'ansia, panico per mia madre, per me, per la situazione: “moriremo qui”.
"Vuoi che usciamo di qui?" mio fratello mi ha chiesto sottovoce quando i terroristi erano dall’altra parte del muro. "Pensi che dovremmo uscire dal rifugio?"
“No. Voglio vivere. Se usciamo di qui, ci rapiranno e ci porteranno a Gaza, mi violenteranno e ci massacreranno tutti”.
La volontà di vivere. L'intraprendenza di mio fratello. Il silenzio che mia madre manteneva ormai da ore…sono le ragioni per cui siamo sopravvissuti.
La batteria del mio telefono si è scaricata intorno alle 11 del mattino. Verso le 12 o giù di lì, hanno fatto saltare la parete del bagno e sono entrati.
Per ore, sono entrati e usciti di casa urlando, sparando contro il rifugio, ai muri della casa, alla finestra del rifugio.
Hanno distrutto la casa, saccheggiato, urlato in arabo, ascoltato musica, hanno riso e ci hanno maledetto.
Quei figli di t*oia si sentivano a casa dentro casa MIA.
Hanno curiosato tra i giochi dei miei nipoti, hanno demolito tutta la casa e hanno appiccato un incendio.
Per due lunghissime ore, hanno distrutto la casa e nessuno è venuto a salvarci.
Solo intorno alle 15:00 abbiamo iniziato a sentire i primi scontri a fuoco tra le nostre forze ed i terroristi. Abbiamo sentito urlare un nome in ebraico mentre le forze israeliane creavano un perimetro offensivo intorno alla nostra casa 'Yakov, Yakov!' Ed è stata la prima voce che abbiamo sentito in ebraico fuori dal rifugio dalle 6 del mattino.
Dopo due ore e mezza di scontri a fuoco, mentre i terroristi entravano e uscivano liberamente da casa nostra, abbiamo sentito delle voci in ebraico e un forte bussare alla porta d'ingresso. “C'è un cane qui! C'è un cane qui!” Hanno urlato quando hanno visto Luna in casa. “Non potevamo farla entrare nel rifugio senza farci uccidere”, ricordo a me stessa per placare il senso di colpa.
“C'è qualcuno qui?” ha urlato una voce in ebraico. Uri, mio fratello, gli ha chiesto di identificarsi.
“Sono il sergente Almog A. del battaglione 932. Sono venuto a salvarvi. Sono qui con la mia unità. C'è qualcuno qui?”
Abbiamo urlato più forte che potevamo, che eravamo lì. Non sono riusciti a farci uscire dalla porta del rifugio, quindi ci hanno fatto passare attraverso la finestra.
Non dimenticherò mai quello che ho visto quando me ne sono andata.
Le case intorno a noi stavano andando in fiamme, la nostra invece era inondata dall’acqua usata per spegnere l'incendio.
Il tramonto era fantastico, come sempre nel kibbutz; ma il bel quartiere di mia madre sembrava un campo di guerra in Iraq. Tutto era bruciato, distrutto, andato in fiamme. L'auto di mio padre, parcheggiata accanto al carro armato che ci ha protetti mentre scappavamo con la squadra che ci aveva soccorso, era ricoperta di schizzi di sangue.
Siamo stati evacuati in un rifugio anti missile, poi in un'area di assemblaggio e dopo ancora a Tel Aviv.
Il nostro autobus è stato colpito da colpi di arma da fuoco in uno scontro con uno squadrone di terroristi vicino ad Alumim, ma non si è fermato.
Ieri ho scoperto che, a quanto pare, su otto famiglie che vivevano nella nostra strada, noi siamo una delle tre famiglie che ne sono uscite vive e che sono state salvate dall'inferno.
Ho scritto queste parole in memoria delle persone assassinate nel massacro del kibbutz Be’eri, una preghiera per i rapiti, i dispersi e i feriti.
Ancora non conosco tutti i nomi dei dispersi, dei rapiti e dei morti. I nomi sono pubblicati uno dopo l’altro e il mio cuore arde, insieme alla nostra casa e a quello che era un bellissimo kibbutz.
Per i primi due giorni, ho vissuto tra ondate di flashback e dolori fisici pazzeschi - ma ne sono uscita grazie al trattamento di emergenza EMDR - progettato per fornire una rapida cura iniziale alle vittime di trauma e post-trauma. Chi può, richieda oggi stesso un aiuto medico mentale: si tratta di un trattamento salvavita e personalmente mi ha tirata fuori da un girone infernale sia a livello fisico sia mentale!
Al momento non rispondo al telefono. Se qualcuno vuole commentare qualcosa o chattare è possibile contattarmi tramite messaggi WhatsApp. Se avrò la forza mentale necessaria, risponderò tramite messaggio o telefono, ok?
Benedetto sia il Redentore dei prigionieri. E spero che tutto finisca presto, Amen.
Fate attenzione - abbracciate i vostri cari e abbiate cura di voi stessi. La nostra forza sta nella capacità di essere uniti e riusciremo a superare questa merda! Insieme vinceremo.
"Sto aspettando."
"Cosa?
Non c’è niente da aspettare. Siamo ancora qui.
Sembra relativamente silenzioso fuori.
Ho chiesto che ci mandino degli aiuti."
"Dov’è la cagnolina?"
"Non credo siano entrati qui. Penso siano solo di sopra."
"E sta abbaiando?"
"I Love you
Non abbaia. Stanno sparando."
"Noa sei la più forte del mondo"
"Ti amo moltissimo
"Anche io
Tesoro dammi un segnale!"
Noa B.